giovedì 17 marzo 2016

Il Vulcanissimo alla conquista di Trieste. Prima puntata.



Le amministrative si avvicinano e bora.qua ospita il meno visibile fra tutti i candidati a sindaco di Trieste. Il vulcanico ed amatissimo, che spesso abbiamo ospitato e che da oggi chiameremo il Vulcanissimo, ci chiede di rompere il muro di silenzio che la stampa locale ha creato attorno a lui, per impedirgli di insidiare i candidati mainstream Cosolini e Dipiazza. Lo ospitiamo volentieri (ma non alla triestina) in una serie di dialoghi sulla città e sul programma.

Signor Vulcanissimo, Trieste sceglierà il sindaco per il prossimo quinquennio, da dove cominciamo?

Innanzitutto dobbiamo fare una riflessione su Trieste, perché senza una visione generale non si va da nessuna parte.

Va bene.

Cominciamo quindi col dire che la narrazione che si fa in città, sulla sfortuna di Trieste, sulla persecuzione della storia, è fuorviante, al limite della falsità. Trieste è una città fortunata che non sa sfruttare il suo destino. Il confine con la ex Jugoslavia è stato ed è un elemento di ricchezza. Basti dire che in città c’è chi si è arricchito vendendo blue jeans. E’ un dono avere un porto commerciale, che è come avere una miniera, con la fortuna aggiuntiva che non bisogna faticare per estrarre il materiale: la merce ti viene da sola in braccio, devi solo raccoglierla. Senza contare che un'industria impiantata in un sito portuale ha un vantaggio automatico nell'approvvigionamento di materie prime. E’ una fortuna il clima, compresa la bora che risolve i problemi di inquinamento ambientale ripulendo periodicamente l’atmosfera dallo smog. E’ una fortuna la bizzarra e fascinosa bellezza di una città neoclassica affacciata sul mare, un unicum europeo. Ed è soprattutto una fortuna gigantesca essere capoluogo di una regione autonoma, status che garantisce un regime fiscale di vantaggio e risorse che le regioni a statuto ordinario si sognano.

Quindi basta piangersi addosso?

Basta piangersi addosso ma soprattutto basta sprecare le fortune che abbiamo. I regali che la storia ci ha fatto.

Quali sprechi?

Detto che il porto funziona a meno di un terzo delle sue potenzialità, a Trieste, per decenni, si sono buttati soldi dalla finestra. Basta guardarsi intorno e ci si accorge che è tutto doppio: due ospedali, due stadi, due palazzetti dello sport, quattro teatri.. svariati spazi espositivi praticamente inutilizzati e se non fosse per litigi e ripicche avremmo due palazzi dei congressi e chissà cos’altro. Basti citare i deliri sul parco del mare. In più ci siamo lanciati in recuperi edilizi senza alcuna programmazione, investendo risorse immense in progetti irrazionali: il magazzino 26, la ex pescheria, il magazzino vini, la stazione idrodinamica, l’ex ospedale militare, la sala Tripcovich, la caserma Beleno, il museo De Henriquez..

Non tutte sono opere del Comune..

Infatti sto parlando della città nel suo complesso. Tutte le istituzioni hanno partecipato alla fiera delle castronerie. L’importante è mettere un freno a questa idea dell’intervento alla sperindio. Non si possono investire denari in un’area della città senza avere un’idea precisa di cosa farne, e su quanto se ne può ricavare in termini economici, come nel caso della ex pescheria. Lo dico perché con la sdemanializzazione del Porto vecchio rischiamo di ripetere i vecchi errori moltiplicati per mille.

Ne riparleremo... Resta il fatto che la città soffre una grave crisi economica ed occupazionale, qualcosa bisognava e bisognerà pur fare.

Risanare ruderi non porta lavoro e non crea ricchezza. La crisi economica ed occupazionale di Trieste è scritta in dati che tutti conoscono ma che nessuno osa citare: nel territorio provinciale, su cento occupati, due lavorano nell’agricoltura, tredici nell’industria e ottantacinque nei servizi. Con questi numeri – che nemmeno Londra o New York hanno – qualsiasi territorio sprofonda. Trieste muore di terziario, soffoca di uffici e di impiegati: senza produzione non si va da nessuna parte. Ecco perché il Friuli, che non è certo una potenza industriale ma ha solo qualche piccola o media industria, sta sopravanzando Trieste in tutto. La vera disgrazia della città è stata la deindustrializzazione, il resto è folklore. Purtroppo temo che si sia diffusa fra i triestini l’idea che lavorare consista in prendere un diploma o una laurea a caso e poi andare a caccia di una raccomandazione per entrare alle Generali, in Regione, nell’Azienda sanitaria, in Acegas o in qualche altro ufficio pubblico. Ora che tutto è saturo, il lavoro – questo tipo di lavoro – è diventato un miraggio.

Insomma la colpa dei problemi di Trieste è dei triestini?

Come per Milano ed i milanesi. Ma qui, in nome della specificità di Trieste, di una sua presunta e millantata eccellenza, ci siamo sottratti al confronto con il resto dell’universo, convinti di avere qualcosa in più. Invece era qualcosa in meno. Così abbiamo preso strade sbagliate e le abbiamo pagate a caro prezzo.

Per esempio?

Privatizzare Acegas ci ha poi costretto a cederla ai bolognesi. Le manie di grandezza di Coop operaie ha obbligato la città a supplicare le coop emiliane di salvare il salvabile. E la gestione perlomeno discutibile del patrimonio della fondazione CRT ne ha impoverito i soci, ovvero Comune, Provincia e Regione. E si potrebbe continuare, anche nel settore privato.

Capita di sbagliare, nessuno ha la sfera di cristallo.

Vero, ma che qui ci siano una visione distorta della realtà ed una mania di grandezza spropositata è testimoniato dal caso dello stadio Rocco. Un impianto nuovo da trentamila posti per una città che non ha squadre di calcio. Ci siamo arrivati per un ottuso e cieco gigantismo. Bastava guardarsi intorno e prendere esempio da città come Firenze o Bologna, che hanno un bacino di un milione di persone, quintuplo di Trieste, e si tengono stadi più piccoli risalenti agli anni trenta.

Scenderemo nei dettagli in seguito. Per concludere questo primo colloquio?

Guardiamo Trieste per quello che è per quello che ha. Non per quello che aveva, che vorremmo avesse o per quello che sarà fra cento anni grazie ai nostri sogni. Teniamo i piedi per terra e pensiamo all’esistente.


(1. continua)

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