sabato 26 marzo 2016

Il Vulcanissimo alla conquista di Trieste. Quinta puntata.



Vulcanissimo, dopo le brutture dobbiamo sollevarci il morale. Qualcosa di bello ci sarà da dire..

Trieste è bellissima, non c’è dubbio. Peccato che i triestini facciano poco o nulla per meritarsi tale bellezza e sembrino adoperarsi per imbruttire la loro città. Lo dice anche il Piccolo di oggi (26 marzo NdR): il primo commento dei turisti è che la città è sporca e trascurata. Si guardi intorno. Alcuni dettagli, seppur minimi, denotano un senso estetico direi bassino.

Per esempio?

Le edicole.

Le edicole?
 
Le edicole vecchio tipo, quelle in lamiera grigia. Il centro storico ne è disseminato e sono deturpanti. Vanno trasferite nei fori commerciali. Si dà un incentivo agli edicolanti perché chiudano l’orrido chiosco e traslochino in un locale più idoneo. Sarebbe più salubre anche per loro: d’inverno, con la bora, non credo sia allegro starci dentro. Non voglio fare esempi specifici ma basta guardarsi intorno.

Eliminando le edicole risolviamo il problema?
 
No di certo, bisogna riqualificare l’aspetto urbano in generale, anche in chiave turistica, ma non solo. Trieste non ha un elemento di richiamo turistico come gli Uffizi a Firenze, i Musei vaticani a Roma o il fascino di Venezia. Il suo punto di forza è l’unicità dell’architettura urbana per una città sul mare. Ma bisogna valorizzarla ed esaltarla. Troppi edifici storici, di pregio, versano in condizioni pessime e molte vie centrali o semicentrali sono trascurate, se non degradate. Serve un piano di recupero edilizio delle facciate storiche: incentivi regionali e comunali per risanare e conservare le facciate degli edifici che hanno almeno un secolo di vita. E’ inaccettabile vedere palazzi del centro scrostati e malamente “messi in sicurezza” con interventi grossolani. Ce ne sono ovunque, anche su piazza Ponte rosso. Quando li vedo non posso che pensare che i triestini non amano abbastanza la loro città, anzi, nemmeno la loro casa. Poi bisogna recuperare il decoro nelle vie abbandonate a loro stesse. Un esempio: via Battisti. Entrambi i marciapiedi sono ingombri di ogni schifezza: auto in sosta, edicole …

Aridaje..

… edicole, chioschi di fiori e di caldarroste, cassonetti – sono più di trenta – cabine Enel, tabelloni
pubblicitari; insomma: un suk. Bisogna sgomberare tutto.

E dove lo si sposta?

Le auto non possono sostare su un marciapiede, punto. Di edicole e chioschi ho detto ed i cassonetti vanno collocati in isole ecologiche nelle vie laterali. Basta buon senso e collaborazione con gli esercenti. I quali hanno ragione a dolersi dell’abbandono e vanno esortati a collaborare. Cammineranno un po’ per gettare l’immondizia ma avranno un marciapiede libero.

Altri esempi?

Basta guardarsi intorno: via Rossetti, via dei Piccardi, via Diaz, via Cadorna, via Lazzaretto vecchio... Abbiamo già detto che bisogna ridurre le auto in sosta con il sistema dei parcheggi a pagamento per i non residenti. L’attuale giunta aveva annunciato attenzione per le periferie, ma io non vedo attenzione nemmeno per il semicentro. Solo qualche cretinata nel solito Borgo teresiano, il nulla.

Cretinata?

L’intervento in piazza Ponte rosso non mi sembra riuscito. Ribadisco che bisognerebbe pedonalizzare via Roma, ma non basta buttar lì due masegni per dire di aver riqualificato una piazza storica. E comunque un anno di tempo per un lavoro del genere è inaccettabile.Un ultima nota per foro Ulpiano: vorrei capire a chi piace così come è. Con il prato per deiezione canina, i camminamenti in cemento armato e le casematte per l’accesso al parcheggio. Un obbrobrio. E taccio su piazza Goldoni..

No, no.. dica

C’è da dire? Il Muro dei Fucilati, il Grande Orinatoio e lo Scopino Gigante. 

C’è tanto lavoro da fare, quindi, ma con le ristrettezze finanziarie…
 
Intanto si comincia. Se avessimo iniziato per tempo con opere di buon senso adesso potremmo aver raggiunto qualche risultato. Sono stati sprecati anni e milioni di euro. E si continua a sprecare..

Dove?

Il Magazzino vini, per dirne una.

Ma quella non è opera del Comune.

Della Fondazione CRT, che gestisce un patrimonio pubblico: Comune, Regione, Provincia. Quindi sono soldi nostri che dovevano essere spesi diversamente.

Cosa c’è che non va nel progetto Eataly? Lei che avrebbe fatto? Il Centro congressi, come doveva essere?
 
Né Eataly né congressi. Andava buttato giù. Era un rudere privo di qualsiasi valore artistico e la collettività, a quel che leggo, ci ha investito ventitré – dico ventitré – milioni di euro, che probabilmente in realtà sono molti di più.

Ma nascerà un gioiello della ristorazione.
 
Privato. Che darà profitti a un privato. I triestini pagano e altri fanno profitti. Con altri soldi dei triestini, che pagheranno 10 euro per un trancio di pizza. Che sarà anche speciale, ma pur sempre trancio di pizza è. Sono curioso poi di sapere i termini dell’affitto, tenuto conto che l’operazione è già di per sé di dubbia trasparenza, perché un bene che di fatto è pubblico viene concesso senza gara, a trattativa privata. Leggo di un canone di 400mila euro annui. Quindi ci vorranno sessant’anni per rientrare dell’investimento per il recupero. Le pare sensato? Fossimo un Comune che può buttare soldi capirei, ma invece ci dicono che i soldi non ci sono. Però per fare regali a Farinetti li hanno trovati. Mi chiedo poi quale sia la clausola rescissoria: se Eataly decide di recedere dal contratto, quanto paga di penale? Perché in quel caso ci troveremmo un mostro sulle Rive, fatto e pensato per Eataly e quindi inutilizzabile. Se dovesse venir abbandonato ci ritroveremmo con un nuovo mostro urbano. Al modico prezzo di 23 milioni di euro.

La vedo alterato.
 
Come prima cosa metterò in discussione la gerenza della Fondazione CRT.

(5. continua)

mercoledì 23 marzo 2016

Il Vulcanissimo alla conquista di Trieste. Quarta puntata.


Vulcanissimo, è venuto il momento di affrontare il tema più caldo (in tutti i sensi) delle ultime campagne elettorali: la Ferriera.

Se il Porto vecchio è stato il grande alibi della politica triestina per trent’anni, la Ferriera è stata il grande crimine. Verso i triestini che si sono ammalati ma anche verso tutti gli altri, ingannati da montagne di parole ingannevoli.

Ne dica una di queste parole ingannevoli.

“Eccellenza”. A Trieste la si usa a piene mani, per la Sanità, per l’economia, per la qualità della vita, per l’amministrazione “asburgica”, per l’imprenditoria, per l’informazione, per la Giustizia.

E invece?

E invece la Ferriera è la prova palmare che Trieste non eccelle in niente. Non nella sanità, se si tiene un mostro inquinante a ridosso delle case; non nell’economia, se l’unica industria superstite è a continuo rischio chiusura, o per ragioni politico-sanitarie o per ragioni economiche; non nella qualità della vita, se i parametri ambientali sono cronicamente affetti dalle emissioni di Servola; non nell’amministrazione, se Regione e Comune, in venti anni, non sono riusciti a fare neppure un minimo passo in avanti sulla questione emissioni; non per l’imprenditoria, se tutto quello che si sa fare è supplicare gruppi esterni di venire qui a non investire ed a far finta di riqualificare-risanare; non per la stampa locale, che nasconde ai triestini che la  Ferriera è la Ilva del Nordest ed ha sulla coscienza venti anni di disinformazione; non nella Giustizia, visto che la Procura, in tema, ha inanellato una serie di provvedimenti, diciamo così, fittizi.

Una Caporetto.

La Caporetto di una classe dirigente locale inadeguata, pavida, impreparata e al tempo stesso tronfia e mendace.

Ma cosa si doveva fare?

Eccellenza, in questo caso, significava dimostrare che l’industria pesante, la siderurgia, la città e la natura – la splendida natura di questo golfo – possono convivere. Se la questione Ferriera fosse stata affrontata per tempo, adesso potremmo dire di aver mantenuto una produzione importante per la città salvaguardando la qualità dell’aria e dell’ambiente. Potremmo additare il modello Trieste alla realtà di Taranto ed a tante altre analoghe. Bastava copiare dagli altri paesi gli esempi in cui impianti siderurgici operano a ridosso delle città. Invece Trieste si è ottusamente divisa fra chi proclamava di voler chiudere la Ferriera per ragioni sanitarie e chi la voleva tenere in vita per ragioni economiche, vaneggiando di riconversioni che nessuno ha mai realmente preso in considerazione. E così la Ferriera ha rischiato di chiudere per ragioni economiche ed ha continuato a operare malamente, inquinando ed aggravando di giorno in giorno il suo stato. In venti anni, con pragmatismo e buon senso, avremmo potuto renderla compatibile.

E adesso?

Nessuna illusione, niente promesse miracolistiche. Bisogna prendere atto del tempo perso e fare ora quel che bisognava fare allora. Ma senza prendere in giro la gente. A Taranto è lo Stato che si è fatto carico dell’impresa e del suo adeguamento. Qui abbiamo Friulia e l’autonomia: è tempo che si trovino i fondi per entrare nel capitale della Ferriera e imporre le opere indispensabili alla sua compatibilità ambientale. Ma dal di dentro, inserendo nel CdA della società esponenti nominati dalle istituzioni che possano decidere. Non ci si può limitare a fare la voce grossa ogni tanto, ad alzare il ditino contro la proprietà affinché faccia quello che ha dimostrato di non voler fare. Andiamo a rivedere gli interventi delle istituzioni in questi anni: una comica teoria di diffide, ingiunzioni e prescrizioni da parte di uffici regionali e magistrati, tutte regolarmente disattese.

Non sarebbe più semplice chiudere l’area a caldo, riconvertire come dicono in tanti?
 

Se fosse così, se fosse semplice, l’avrebbero fatto; temo invece che riconversione sia una parola vuota.

E chiudere tutto?

Questo è il vero incubo. Se lo immagina quel sito abbandonato? Lo guardi dall’alto con Google Earth: è più vasto del Porto vecchio. Ci ritroveremmo con un mostro ambientale ingestibile. Un deserto super inquinato la cui bonifica richiederebbe investimenti insostenibili. Se nessuno parla più di chiusura della Ferriera il motivo, per me, è questo: dal giorno dopo avremmo un problema irrisolvibile, un Porto vecchio moltiplicato per cento dal dramma della bonifica. La verità è tragicamente questa: la Ferriera deve rimanere in funzione, se non altro perché operando il sito rimane sotto controllo. Ma serve un massiccio intervento statale e regionale per l’adeguamento. La Regione dovrebbe smettere di baloccarsi con inutilità come le Uti ed affrontare le questioni autentiche sul tappeto.

Ma un intervento regionale o statale sulla Ferriera incontrerebbe ostacoli a più livelli, anche europei. Privatizzare gli utili e socializzare le perdite, si diceva una volta.
 
Quando ci sono di mezzo la salute ed il lavoro, le obiezioni devono essere superate, in un modo o nell’altro. Non si tratta di socializzare le perdite, ma di socializzare la salute. Perché in effetti la salute è un bene pubblico. Non si può affidare la salute di un intero quartiere, se non di un’intera città, alla presunta buona volontà di un privato. Il quale, come ben si sa, è interessato solo al profitto.

Molti pensano che la Ferriera sia ontologicamente anacronistica, un corpo estraneo da espungere, l’eredità di una passato da rimuovere, un mostro deturpante da eliminare dal corpo di una città marittima non più votata all’industria.

Cancellando l’industria uccidiamo la città. Allora che si dica che si vuole fare di Trieste un borgo, un mega ospizio, un agglomerato di ruderi. Torniamo al punto di partenza: l’industria va salvata a tutti i costi, non solo nell’interesse di Trieste o dei lavoratori di Servola, ma di tutta l’Italia. Chi ci paragona alla Grecia, ventilando per noi un analogo dramma economico, sbaglia, perché dalla Grecia ci distingue quello che rimane del nostro patrimonio industriale. Che però va difeso a tutti i costi, anche se è ridotto male come la Ferriera. Per cui ribadisco che dobbiamo lanciare la sfida del mantenimento dell’impianto, cambiando tutto, se serve, ma senza chiusure o ridimensionamenti. E i capitali non possono che venire dal pubblico. Il risanamento, autentico, deve essere il primo passo verso la re-industrializzazione di Trieste.


(4. continua)

lunedì 21 marzo 2016

Il Vulcanissimo alla conquista di Trieste. Terza puntata.


Signor Vulcanissimo, riprendiamo da dove ci eravamo interrotti, il Porto vecchio. Al di là delle perplessità, credo che anche lei abbia pensato a qualcosa. Dimentichiamo le ristrettezze e immaginiamo di avere tempo e denaro a disposizione, sogniamo.. Cosa ci farebbe?

L’unica cosa sensata sarebbe un Centro direzionale. Spostare in Porto vecchio le principali strutture pubbliche: Palazzo di Giustizia, prefettura, questura, uffici regionali, e pure Catasto, Tavolare, Agenzia delle entrate, INPS..  eccetera. Insomma un luogo dove uno va e trova tutto senza diventare scemo per trovare parcheggio in giro per Trieste. Certo che poi si aprirebbero altri problemi..

Cioè?
 
Se spostiamo lì gli uffici pubblici, si svuota il corpo della città e nasce, o, meglio, si aggrava, il problema di come riutilizzare gli stabili abbandonati. Che ne faremmo dell’attuale Palazzo di Foro Ulpiano, per esempio? In compenso si darebbe un bel taglio al problema dei parcheggi, togliendo dal centro il flusso veicolare che si convoglia sugli uffici sparsi nelle varie sedi.

E in un colpo solo abbiamo toccato tre temi non da poco: traffico, parcheggi e recupero edilizio. Argomenti che tengono banco da sempre.
 
Cominciamo dal traffico. Quindici anni di chiacchiere su un piano traffico che non è mai stato realizzato. Ci sarà un motivo, le pare?

E qual è?

Trieste non ha bisogno di un piano del traffico. Perlomeno non di un piano organico che ridefinisca le linee generali dei flussi veicolari.

Ah no?

Lei vede ingorghi? Vede arterie inutilizzate? Vede vie sovraccariche? A parte qualche fisiologica criticità in certi orari, il traffico automobilistico è scorrevole e stabile da anni. E grazie alla bora l’inquinamento atmosferico è sotto controllo. Quindi non vedo ragioni di rivoluzionare tutto, anche perché non esistono margini di modifica sostanziale. La città è questa, le arterie sono queste e non possiamo crearne di nuove. A meno di non voler asfaltare il golfo o scavare un tunnel nel ciglione carsico.

Immobilismo totale?

No, lentamente, senza traumi, si possono portare migliorie. Ma senza fantasie tipo la chiusura alle auto di Corso Italia, che potrà piacere ai commercianti, ma è irrealistica. Il traffico che passa di lì dove lo convogliamo? 

E la pedonalizzazione di via Mazzini?

Quella non l’ho capita, e, visto come è finita, evidentemente nemmeno chi l’ha fatta. Fino a quando il traffico automobilistico privato esisterà, dobbiamo accettare il principio che le vie che reggono traffico devono essere percorribili, mentre la pedonalizzazione può riguardare strade strette, brevi, che non sopportano un traffico rilevante e che quindi possono essere chiuse senza impatto negativo sulla fisiologia dei flussi. In questa ottica via Mazzini, che regge importanti linee di autobus, non può venire chiusa. In quella zona, piuttosto, si potrebbe ragionare sulla pedonalizzazione di via Roma, fra e delle vie San Spiridione e Filzi fra Corso Italia e via Valdirivo, deviandone i flussi, rispettivamente, sulle Rive e su via Carducci.

I vantaggi quali sarebbero?
 
Creeremmo un’isola pedonale lungo tutto il canale, dal mare fino a piazza S. Antonio, comprendente piazza Ponte Rosso, che al momento è tagliata a metà dal traffico di via Roma. Come se lei, in casa sua, per andare in bagno, dovesse attraversare il soggiorno.

Vedo qualche difficoltà nelle vie adiacenti, e comunque anche lei insiste nel medesimo segmento della città.

Ha ragione, si può intervenire anche altrove. Butto qualche esempio: via San Francesco. E’ talmente stretta che non contiene auto in sosta e neppure regge un traffico significativo. Nel tratto da piazza Giotti a via Carducci la si potrebbe pedonalizzare, deviandone il traffico su via Battisti. Otterremmo il risultato di rivitalizzare una zona del centro che è stata completamente trascurata. I commercianti della zona hanno ragione a dolersene. Anche nel dedalo di vie in zona Ospedale Maggiore, fra Rossetti, Piccardi, Conti, Foscolo e Pascoli si possono fare delle mini-chiusure che, senza modificare la circolazione, potrebbero dare respiro alla zona e riqualificarla. Insomma, interventi mirati e ragionati che non alterano l’impianto della circolazione ma danno respiro alle singole aree del centro.

Null’altro sul problema del traffico?

Detto che il tunnel di piazza Foraggi resta una vergogna da cancellare quanto prima, Trieste si caratterizza per una serie di tante piccole criticità. Doppi sensi in vie strettissime che diventano alternati in presenza di autobus, precedenze illogiche non segnalate, viottoli che dovrebbero essere pedonali e invece sono percorribili. Una qualche razionalizzazione si può e deve fare. Ne dico una: la rotatoria allaconfluenza fra via Flavia e strada della Rosandra non può essere rinviata. Ma più grave è sicuramente il problema dei posti auto, dei parcheggi in strada.

Ecco. Come la mettiamo?

L’idea di risolvere la questione coi parcheggi multipiano si è rivelata fallimentare. La gente non può permettersi di spendere cifre folli per un box auto: siamo a Trieste, non a Montecarlo. Cinquantamila euro per un box, cui vanno aggiunti gli oneri di gestione del parcheggio sono un controsenso, tanto più che non essendo stata vietata la sosta a bordo carreggiata, la gente ha mantenuto la vecchia abitudine di parcheggiare in strada.

E allora?

I quartieri del centro vanno divisi in sottoaree nelle quali la sosta in strada deve essere gratuita per chi in quell’area risiede o possiede la propria attività (tipo un negozio), mentre per tutti gli altri deve essere a pagamento.

Questo risolverebbe il problema?
 
Non definitivamente e non del tutto, ma sarebbe l’inizio della soluzione. Questo sistema darebbe più spazi ai residenti, garantirebbe introiti al Comune e fornirebbe una indicazione diretta delle esigenze reali di posti auto nelle zone centrali, su cui ragionare per trovare una soluzione definitiva. Inoltre, là dove vi sono parcheggi multipiano già realizzati, penso per esempio a via Fabio Severo o a via del Teatro romano, bisogna avere il coraggio di vietare la sosta in strada per incentivare l’uso dei parcheggi stessi.


(3. continua)

sabato 19 marzo 2016

Il Vulcanissimo alla conquista di Trieste. Seconda puntata.



Signor Vulcanissimo, è venuto il momento di passare ai contenuti. Nelle ultime settimane ha tenuto banco la proposta di creare la città metropolitana.

Idea vecchia di anni, sposata ora da persone che in passato l’avevano osteggiata. E’ solo aria fritta, dal momento che neppure nelle città per le quali è stata pensata si sta realizzando. In ogni modo l’orientamento generale è di istituire la Città metropolitana là dove vi è almeno un milione di abitanti. Quindi, per Trieste, stiamo parlando di niente.

Allora perché se ne discute? 

Si parla di Città metropolitana come anche di provincia autonoma, di Mega Uti, di fusione con Gorizia o di Territorio libero di Trieste. Mi meraviglio che nessuno abbia rispolverato l’Adriatisches Kustenland o proposto l’Unione delle repubbliche marinare dell’alto Adriatico.

Mettere tutto sullo stesso piano sembra una provocazione.

Provocazione che serve a far capire che è politicamente disonesto far credere agli elettori che il futuro della città possa cambiare creando nuove strutture amministrative. La burocrazia crea lavoro per i burocrati e basta.

Quindi fumo negli occhi?

E’ sotto gli occhi di tutti che la città di Trieste coincide con il Comune, ed è il Comune che deve occuparsi dei problemi, altro non serve. La Provincia aveva la funzione marginale di integrare con la città aree minori non assimilabili per ragioni linguistiche e storiche. Essendo, proprio per questo, un istituto utile hanno pensato bene di abolirlo.

Bocciatura totale.

Purtroppo la retorica politica prevale sul buon senso ed a farne le spese sono i cittadini.

Ma chi propone la città metropolitana sostiene che arriverebbero 50 milioni di euro.

E cosa ci facciamo con 50 milioni di euro? Non bastano neppure per risanare palazzo Carciotti. Rivoluzionare le istituzioni per avere due soldi mi pare una stupidaggine. Non avendo idee su quello che si può fare, la gente butta là idee a casaccio, facendo credere che da esse scaturirà chissà cosa. Invece se ci sono progetti buoni li si può realizzare con le istituzioni esistenti, anche con un commissario. Bisogna averli però, i progetti buoni.

E allora che progetti facciamo?

Siamo in epoca di vacche magre. Dobbiamo gestire l’esistente e porre le basi per il domani. La chiusura di Ezit e di Sviluppo Italia è una buona notizia. Deve essere il Comune in primis a cercare le soluzioni per riportare investimenti produttivi nella zona industriale. Esiste un assessore comunale alle attività produttive, ma mi risulta che attualmente si occupi di attività produttive in Slovenia. Ecco, forse sarebbe meglio un assessore che si dedica alle attività produttive a Trieste. Partiamo dalle imprese vicine, friulane e venete, e vediamo cosa possiamo fare per portare qui linee produttive. Il porto offre vantaggi considerevoli, la fiscalità è favorevole ed il Comune può studiare forme di agevolazione.

Ma il progetto dei progetti è il riuso del Porto vecchio.
 
La stasi del Porto vecchio è stato il grande alibi della politica cittadina per almeno trent’anni. Ci dicevano: “va tutto male perché il Porto vecchio è fermo. Appena lo potremo riutilizzare Trieste risorgerà”. Bene: ora l’alibi è caduto e voglio vedere cosa succede. Ovviamente non si può che essere favorevoli ad una riqualificazione economicamente valida, ma non ho ancora capito cosa pensano di farci. Voglio dire: fra tutti quelli che parlano di riuso, ce n’è almeno uno che ha fatto una proposta concreta e credibile? Dico una. Da quello che leggo il Comune paga una società che va in giro a proporre il Porto vecchio a destra e a sinistra, senza un piano, neppure di massima, e senza alcun vincolo di risultato. Poi magari questi tornano qui e ci dicono: “spiacenti, del vostro Porto vecchio non frega niente a nessuno. Ecco il conto per la nostra consulenza”.

Va bene, ma uno sforzo va fatto comunque.

Io la metto così. Se a qualcuno interessa il Porto vecchio o una sua parte, venga a Trieste e ci dica cosa vuole fare. Vedremo il progetto e valuteremo. Andare in giro con il cappello in mano ci espone al rischio di perdere tempo e denaro o, peggio, di importare in città meri speculatori.

Il palazzo dei congressi al Silos è una proposta concreta.

Ma congressi di che? Con chi? Guardiamo in faccia la realtà: Trieste è una città irraggiungibile. L’Alta velocità ferroviaria non arriverà mai (per fortuna) ed è un miracolo se riusciamo a mantenere i pochi collegamenti ferroviari che abbiamo; l’aeroporto è una barzelletta e automobilisticamente siamo remoti da tutti. L’idea di fare congressi a Trieste è surreale. Senza contare che la crisi ha colpito duramente il turismo congressuale anche là dove era consolidato.

Eppure l’attuale sindaco ha annunciato il progetto come certo.

Se è per quello era certo anche il parcheggio interrato sulle Rive. Ne ha più sentito parlare? Forse voleva solo litigare con la sua minoranza interna.

Mettiamo il Palazzo dei congressi nell’elenco delle promesse di Pulcinella?

Un palazzo dei congressi Trieste ce l’ha, la Stazione marittima. Fa schifo ma c’è. Potremmo rimodernare quello, tanto per parlare di cose sensate e non di sogni che non vedremo mai realizzati.

Questo discorso vale anche per il concetto stesso di riuso del Porto vecchio, a quello che capisco. E’ un’area definitivamente persa secondo lei? Proprio non ci si può fare nulla?

Non sono un urbanista, né un imprenditore 3.0. Se qualcuno ha idee realizzabili è benvenuto, ma dobbiamo fare i conti con la realtà. In quell’area ci sono enormi magazzini vincolati dalla Sovrintendenza, strutture antiche e pensate per contenere merci. Trasformarli in edifici ad uso diverso ha costi enormi e la funzionalità del risultato è tutta da dimostrare. Francamente le perplessità sono tante. L’affaccio sul mare è un fatto unico, ma come lo si sfrutta? Io sono d’accordo con chi dice che è un sito estremamente suggestivo, addirittura fascinoso. Ma la suggestione ed il fascino non si vendono.

C’è il mare, si parla di turismo.

E’ un mare portuale, non balneabile. E prendete l’esempio della Maddalena. Lì c’è il mare della Sardegna, il progetto lo hanno fatto i migliori architetti. Eppure sta andando tutto in malora.

Quel che non va altrove potrebbe funzionare qui.

Anche noi abbiamo il nostro precedente: Porto san Rocco. Andiamo a rileggere cosa si diceva delle magnifiche sorti della rinata Muggia grazie a quel progetto. Doveva cambiare la storia di tutto il territorio. Ho perso il conto di quanti fallimenti ha messo in fila la società Porto san Rocco. Con il Porto vecchio rischiamo di ripetere l’esperienza moltiplicata per mille. E a chi dico io credo stiano fischiando le orecchie.

Va bene signor Vulcanissimo, ci ha un pochino depressi ma continueremo la conversazione..

(2. continua)

giovedì 17 marzo 2016

Il Vulcanissimo alla conquista di Trieste. Prima puntata.



Le amministrative si avvicinano e bora.qua ospita il meno visibile fra tutti i candidati a sindaco di Trieste. Il vulcanico ed amatissimo, che spesso abbiamo ospitato e che da oggi chiameremo il Vulcanissimo, ci chiede di rompere il muro di silenzio che la stampa locale ha creato attorno a lui, per impedirgli di insidiare i candidati mainstream Cosolini e Dipiazza. Lo ospitiamo volentieri (ma non alla triestina) in una serie di dialoghi sulla città e sul programma.

Signor Vulcanissimo, Trieste sceglierà il sindaco per il prossimo quinquennio, da dove cominciamo?

Innanzitutto dobbiamo fare una riflessione su Trieste, perché senza una visione generale non si va da nessuna parte.

Va bene.

Cominciamo quindi col dire che la narrazione che si fa in città, sulla sfortuna di Trieste, sulla persecuzione della storia, è fuorviante, al limite della falsità. Trieste è una città fortunata che non sa sfruttare il suo destino. Il confine con la ex Jugoslavia è stato ed è un elemento di ricchezza. Basti dire che in città c’è chi si è arricchito vendendo blue jeans. E’ un dono avere un porto commerciale, che è come avere una miniera, con la fortuna aggiuntiva che non bisogna faticare per estrarre il materiale: la merce ti viene da sola in braccio, devi solo raccoglierla. Senza contare che un'industria impiantata in un sito portuale ha un vantaggio automatico nell'approvvigionamento di materie prime. E’ una fortuna il clima, compresa la bora che risolve i problemi di inquinamento ambientale ripulendo periodicamente l’atmosfera dallo smog. E’ una fortuna la bizzarra e fascinosa bellezza di una città neoclassica affacciata sul mare, un unicum europeo. Ed è soprattutto una fortuna gigantesca essere capoluogo di una regione autonoma, status che garantisce un regime fiscale di vantaggio e risorse che le regioni a statuto ordinario si sognano.

Quindi basta piangersi addosso?

Basta piangersi addosso ma soprattutto basta sprecare le fortune che abbiamo. I regali che la storia ci ha fatto.

Quali sprechi?

Detto che il porto funziona a meno di un terzo delle sue potenzialità, a Trieste, per decenni, si sono buttati soldi dalla finestra. Basta guardarsi intorno e ci si accorge che è tutto doppio: due ospedali, due stadi, due palazzetti dello sport, quattro teatri.. svariati spazi espositivi praticamente inutilizzati e se non fosse per litigi e ripicche avremmo due palazzi dei congressi e chissà cos’altro. Basti citare i deliri sul parco del mare. In più ci siamo lanciati in recuperi edilizi senza alcuna programmazione, investendo risorse immense in progetti irrazionali: il magazzino 26, la ex pescheria, il magazzino vini, la stazione idrodinamica, l’ex ospedale militare, la sala Tripcovich, la caserma Beleno, il museo De Henriquez..

Non tutte sono opere del Comune..

Infatti sto parlando della città nel suo complesso. Tutte le istituzioni hanno partecipato alla fiera delle castronerie. L’importante è mettere un freno a questa idea dell’intervento alla sperindio. Non si possono investire denari in un’area della città senza avere un’idea precisa di cosa farne, e su quanto se ne può ricavare in termini economici, come nel caso della ex pescheria. Lo dico perché con la sdemanializzazione del Porto vecchio rischiamo di ripetere i vecchi errori moltiplicati per mille.

Ne riparleremo... Resta il fatto che la città soffre una grave crisi economica ed occupazionale, qualcosa bisognava e bisognerà pur fare.

Risanare ruderi non porta lavoro e non crea ricchezza. La crisi economica ed occupazionale di Trieste è scritta in dati che tutti conoscono ma che nessuno osa citare: nel territorio provinciale, su cento occupati, due lavorano nell’agricoltura, tredici nell’industria e ottantacinque nei servizi. Con questi numeri – che nemmeno Londra o New York hanno – qualsiasi territorio sprofonda. Trieste muore di terziario, soffoca di uffici e di impiegati: senza produzione non si va da nessuna parte. Ecco perché il Friuli, che non è certo una potenza industriale ma ha solo qualche piccola o media industria, sta sopravanzando Trieste in tutto. La vera disgrazia della città è stata la deindustrializzazione, il resto è folklore. Purtroppo temo che si sia diffusa fra i triestini l’idea che lavorare consista in prendere un diploma o una laurea a caso e poi andare a caccia di una raccomandazione per entrare alle Generali, in Regione, nell’Azienda sanitaria, in Acegas o in qualche altro ufficio pubblico. Ora che tutto è saturo, il lavoro – questo tipo di lavoro – è diventato un miraggio.

Insomma la colpa dei problemi di Trieste è dei triestini?

Come per Milano ed i milanesi. Ma qui, in nome della specificità di Trieste, di una sua presunta e millantata eccellenza, ci siamo sottratti al confronto con il resto dell’universo, convinti di avere qualcosa in più. Invece era qualcosa in meno. Così abbiamo preso strade sbagliate e le abbiamo pagate a caro prezzo.

Per esempio?

Privatizzare Acegas ci ha poi costretto a cederla ai bolognesi. Le manie di grandezza di Coop operaie ha obbligato la città a supplicare le coop emiliane di salvare il salvabile. E la gestione perlomeno discutibile del patrimonio della fondazione CRT ne ha impoverito i soci, ovvero Comune, Provincia e Regione. E si potrebbe continuare, anche nel settore privato.

Capita di sbagliare, nessuno ha la sfera di cristallo.

Vero, ma che qui ci siano una visione distorta della realtà ed una mania di grandezza spropositata è testimoniato dal caso dello stadio Rocco. Un impianto nuovo da trentamila posti per una città che non ha squadre di calcio. Ci siamo arrivati per un ottuso e cieco gigantismo. Bastava guardarsi intorno e prendere esempio da città come Firenze o Bologna, che hanno un bacino di un milione di persone, quintuplo di Trieste, e si tengono stadi più piccoli risalenti agli anni trenta.

Scenderemo nei dettagli in seguito. Per concludere questo primo colloquio?

Guardiamo Trieste per quello che è per quello che ha. Non per quello che aveva, che vorremmo avesse o per quello che sarà fra cento anni grazie ai nostri sogni. Teniamo i piedi per terra e pensiamo all’esistente.


(1. continua)

giovedì 10 marzo 2016

#LoveKras: il rilancio delle Nozze Carsiche

Grandi novità nelle tradizionali celebrazioni della nostra provincia. Sull'onda della vasta diffusione di nuove forme di convivenza affettiva, la imminente cerimonia delle nozze carsiche, si adegua con un rituale dedicato anche agli aspetti più evoluti della vita in comune.

La rievocazione nata non a caso nel 1968, celebra gli usi nuziali popolari seguendo le fonti storiche ed etnologiche, senza trascurare i profondi cambiamenti che l'emancipazione ha comportato per la società contemporanea.

Di conseguenza, accanto alle ormai celebri nozze, che includeranno anche una rievocazione del matrimonio omosessuale/lesbico carsico, non mancherà il rito dedicato alle unioni civili carsiche e al nuovo divorzio breve carsico.

Per il prossimo allestimento è infatti prevista la rievocazione dell'unione civile carsica, dei pacs e dico carsici, del patto sociale di convivenza carsica e della formazione sociale specifica carsica; dato che tali forme di unione affettiva sono ormai consolidate nella contemporaneità e si riflettono sui costumi dell'altipiano. E' dunque inevitabile dar loro considerazione: mai come ora ci si sposa sempre meno e sempre meno durano quelle unioni fondate sul matrimonio.

"La nostra comunità non è rimasta indifferente all'evoluzione dei costumi" ha dichiarato la presidente del comitato organizzativo al nostro redattore. "E' anche per questo che andiamo avanti, anzi vogliamo andare oltre, con una nuova cadenza: adegueremo la tradizionale manifestazione alle recenti disposizioni sullo scioglimento del vincolo coniugale, facendola diventare semestrale."

I visitatori potranno assistere agli ormai storici addii al celibato e nubilato e alla cerimonia nuziale carsica nelle sue molteplici declinazioni, ma anche alla specifica formazione sociale carsica e al divorzio breve carsico.

Una festa dunque che non discrimina le molteplici forme che gli affetti assumono nè il loro epilogo, recuperando alla tradizione quanto fino ad ora ingiustamente trascurato dal rituale dei festeggiamenti.

"Intendiamo così dare una mano alle istituzioni nazionali che faticano a riconoscere i diritti nei cambiamenti sociali, pertanto con il Primroski Dnevnik e Delo, per l'occasione, abbiamo concordato che la pagina dedicata sia tradotta anche in lingua italiana a testimonianza della attitudine carsica a difendere e tutelare il vivere insieme in ogni sua forma, genere e declinazione. Sarà una bella festa." ha aggiunto entusiasticamente l'intervistata. Alla quale, noi di Bora Qua, non mancheremo

martedì 1 marzo 2016

Primarie PD: Cosolini vs Russo. Sondaggio n. 2


A pochi giorni dallo scontro, bora.qua ripropone il sondaggio. Chi vorreste come candidato sindaco del centrosinistra a Trieste?

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