Apparentemente simile ad una comune pizzeria, la pizzeria
triestina è un locale assolutamente unico nel panorama della ristorazione
nazionale. La sua caratteristica, infatti, è che la consumazione della pizza è
un fatto del tutto marginale, tanto che non vi è alcun nesso fra il tipo di
pizza che ordinate e quella che vi viene servita: è del tutto naturale, anzi
consueto, che ordinando una capricciosa vi venga servita una pizza ai wurstel,
o un calzone farcito, e le vostre eventuali rimostranze sarebbero destinate a
suscitare niente più che lo stupore del personale di sala.
Anche per questo una serata in pizzeria a Trieste è una
esperienza assolutamente unica. Dopo aver ordinato una pizza a caso, tanto per
dar pretesto ai camerieri di portare qualcosa al tavolo, si attende che inizi
il servizio vero e proprio. Quando siete verso la metà della consumazione, il
personale comincia a spegnere le luci del locale. Prima quelle a maggior
distanza da voi, poi tutte le altre, ad eccezione del neon che sovrasta il vostro
tavolo e delle luci del bar. Di fronte alla vostra perseveranza nel continuare
la cena, alcuni camerieri prendono a girare le sedie sui tavoli che vi
circondano ed altri, appoggiati al bancone del bar a braccia conserte, vi
fissano con impaziente fastidio, mentre il cassiere cammina nervosamente
attorno al frigo dei gelati, fulminandovi con lo sguardo di tanto in tanto.
Se voi insistete nel consumare senza affrettarvi, si passa
alla fase due. Alcuni inservienti escono dal retro con secchio e spazzolone e
inondano il pavimento del locale, mentre il barista si dedica al bancone con il
Vim liquido. Quando ormai l’atmosfera è satura di vapori di ammoniaca, la più
corpulenta delle pulitrici si avvicina al vostro tavolo e rovescia un secchio
di lisoformio puro sulle vostre Hogan scamosciate, ordinandovi di alzare i
piedi per far passare lo spazzolone. Se voi osate manifestare anche solo il
minimo disappunto, la secchiata successiva vi arriva direttamente in faccia.
Mentre voi cercate stoicamente di sorseggiare la vostra birra, fingendo di
trovarvi perfettamente vostro agio, il titolare abbassa la saracinesca fino a
metà e vi rassicura, sibilando con malcelata stizza: “lascio mezzo aperto così
riuscite a uscire”. Quindi ordina a tutto il personale di schierarsi in riga e
di fissarvi in silenzio, mentre il cassiere apre e chiude ritmicamente il
registratore di cassa, alternando il suono del campanello con il battere delle
nocche sul bancone.
Quale che sia lo stato della vostra pizza, è venuto il
momento di lasciare le posate e di appoggiarvi allo schienale. In tre si
avventano al tavolo emettendo il verso tipico del cameriere fuori orario:
“posso portar via?”, proferito quando già si stanno allontanando con il vostro
piatto. A questo punto, in astratto, vi trovate davanti ad una alternativa
cruciale: alzarvi e pagare il conto o attendere che vi si chieda se desiderate
un dessert. O addirittura chiederlo voi stessi. In tutta franchezza non siamo
in grado di dire cosa potrebbe succedere nel secondo caso, poiché, a memoria
d’uomo, nessuno ha mai osato optare per il dolce. Non vi resta quindi che
alzarvi e dirigervi verso la cassa, dove il cassiere, un ex pugile che stazza
oltre duecento chili, batte la ricevuta, vi fissa con lo sguardo del cobra pronto a colpire e vi
lancia la sfida finale: “Grappetta? Limoncello?” L’atmosfera della pizzeria si
tende come nei saloon dei western all’alzarsi del bounty killer dal tavolo del
poker, e voi vi trovate sull’orlo del baratro: siete consapevoli che,
rifiutando, avrete salva la vita, ma il vostro orgoglio vi spingerebbe ad
accettare. Proprio mentre state per pronunciare l’esiziale “sì, grazie, un
limoncello”, come in un film di Sergio Leone vi balenano davanti agli occhi la
figura di vostra madre e l’immagine di lei che si dispera sulla vostra tomba,
maledicendo la sorte ed il limoncello che le hanno sottratto l’amato figliolo.
L’amore filiale prende allora il sopravvento e vi induce a soccombere: “no, grazie, va bene così”.
Graziati dal destino, vi viene indicato il pertugio dell’uscita
lasciato libero dalla serranda abbassata, nel quale vi infilate in guisa di
forca caudina. Riacquistata la libertà, vi allontanate accompagnati dal fragore
della serranda che cade pesantemente sul battente, coprendo il coro di
maledizioni che il personale tutto lancia al vostro indirizzo. E’ la fine di un
incubo: la serata in pizzeria è solo un ricordo.
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