domenica 3 agosto 2014

A-gusto. La pizzeria


Apparentemente simile ad una comune pizzeria, la pizzeria triestina è un locale assolutamente unico nel panorama della ristorazione nazionale. La sua caratteristica, infatti, è che la consumazione della pizza è un fatto del tutto marginale, tanto che non vi è alcun nesso fra il tipo di pizza che ordinate e quella che vi viene servita: è del tutto naturale, anzi consueto, che ordinando una capricciosa vi venga servita una pizza ai wurstel, o un calzone farcito, e le vostre eventuali rimostranze sarebbero destinate a suscitare niente più che lo stupore del personale di sala.

Anche per questo una serata in pizzeria a Trieste è una esperienza assolutamente unica. Dopo aver ordinato una pizza a caso, tanto per dar pretesto ai camerieri di portare qualcosa al tavolo, si attende che inizi il servizio vero e proprio. Quando siete verso la metà della consumazione, il personale comincia a spegnere le luci del locale. Prima quelle a maggior distanza da voi, poi tutte le altre, ad eccezione del neon che sovrasta il vostro tavolo e delle luci del bar. Di fronte alla vostra perseveranza nel continuare la cena, alcuni camerieri prendono a girare le sedie sui tavoli che vi circondano ed altri, appoggiati al bancone del bar a braccia conserte, vi fissano con impaziente fastidio, mentre il cassiere cammina nervosamente attorno al frigo dei gelati, fulminandovi con lo sguardo di tanto in tanto.

Se voi insistete nel consumare senza affrettarvi, si passa alla fase due. Alcuni inservienti escono dal retro con secchio e spazzolone e inondano il pavimento del locale, mentre il barista si dedica al bancone con il Vim liquido. Quando ormai l’atmosfera è satura di vapori di ammoniaca, la più corpulenta delle pulitrici si avvicina al vostro tavolo e rovescia un secchio di lisoformio puro sulle vostre Hogan scamosciate, ordinandovi di alzare i piedi per far passare lo spazzolone. Se voi osate manifestare anche solo il minimo disappunto, la secchiata successiva vi arriva direttamente in faccia. Mentre voi cercate stoicamente di sorseggiare la vostra birra, fingendo di trovarvi perfettamente vostro agio, il titolare abbassa la saracinesca fino a metà e vi rassicura, sibilando con malcelata stizza: “lascio mezzo aperto così riuscite a uscire”. Quindi ordina a tutto il personale di schierarsi in riga e di fissarvi in silenzio, mentre il cassiere apre e chiude ritmicamente il registratore di cassa, alternando il suono del campanello con il battere delle nocche sul bancone.

Quale che sia lo stato della vostra pizza, è venuto il momento di lasciare le posate e di appoggiarvi allo schienale. In tre si avventano al tavolo emettendo il verso tipico del cameriere fuori orario: “posso portar via?”, proferito quando già si stanno allontanando con il vostro piatto. A questo punto, in astratto, vi trovate davanti ad una alternativa cruciale: alzarvi e pagare il conto o attendere che vi si chieda se desiderate un dessert. O addirittura chiederlo voi stessi. In tutta franchezza non siamo in grado di dire cosa potrebbe succedere nel secondo caso, poiché, a memoria d’uomo, nessuno ha mai osato optare per il dolce. Non vi resta quindi che alzarvi e dirigervi verso la cassa, dove il cassiere, un ex pugile che stazza oltre duecento chili, batte la ricevuta, vi fissa con lo sguardo del cobra pronto a colpire e vi lancia la sfida finale: “Grappetta? Limoncello?” L’atmosfera della pizzeria si tende come nei saloon dei western all’alzarsi del bounty killer dal tavolo del poker, e voi vi trovate sull’orlo del baratro: siete consapevoli che, rifiutando, avrete salva la vita, ma il vostro orgoglio vi spingerebbe ad accettare. Proprio mentre state per pronunciare l’esiziale “sì, grazie, un limoncello”, come in un film di Sergio Leone vi balenano davanti agli occhi la figura di vostra madre e l’immagine di lei che si dispera sulla vostra tomba, maledicendo la sorte ed il limoncello che le hanno sottratto l’amato figliolo. L’amore filiale prende allora il sopravvento e vi induce a soccombere: “no, grazie, va bene così”.

Graziati dal destino, vi viene indicato il pertugio dell’uscita lasciato libero dalla serranda abbassata, nel quale vi infilate in guisa di forca caudina. Riacquistata la libertà, vi allontanate accompagnati dal fragore della serranda che cade pesantemente sul battente, coprendo il coro di maledizioni che il personale tutto lancia al vostro indirizzo. E’ la fine di un incubo: la serata in pizzeria è solo un ricordo.

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